Palermo e la cultura

Palermo ha cambiato volto e la cultura, intesa in senso estremamente trasversale, è il leit motiv della nuova era, quella post mafiosa. 
Palermo e la cultura
Una delle statue della rinascimentale fontana Pretoria, simbolo di Palermo.© Federico Tovoli Photojournalist

Di Palermo ho due fugaci ricordi. Aprile 1982: un gran caos urbano. Io di passaggio ai tempi dell’autostop e sacco a pelo, ultimo anno delle superiori.

Anno 2009, in transito fra Sicilia e Calabria durante il mio reportage sul volontariato antimafia. Trovai la città una Napoli in piccolo ma con  l’aplomb

Un’immagine in particolare mi rimase in testa. Mercato all’aperto da qualche parte in centro, bancarelle stracolme di frutta e ortaggi, coloratissime, più sopra quelle “luci della festa” tipico pergolato delle feste patronali del meridione italiano. A dominare la scena, una cupola di chiesa  barocca… 

Capii forse da li che c’era qualcosa in più, molto in più in quella città che nel 2018 è stata Capitale Italiana della Cultura;  status che non si ottiene per caso. 

Palermo e la cultura
Un “apino” turistico nel quartiere di la Kalsa © Federico Tovoli Photojournalist
La città si srotola lungomare, fra antico e  moderno. 

Via Vittorio Emanuele da Porta Felice, sul mare a La Cala, attraversa la città fino a Porta Nuova a sud ovest, incrocia ai Quattro Canti la via Maqueda,  strada in parte pedonale che dalla zona  stazione a est  va verso nord ovest oltrepassando il Teatro Massimo.  Il Teatro Politeama chiude  il centro storico ad ovest , verso Monte Pellegrino e le spiagge di Mondello. C’è in mezzo  l’enorme colata di cemento trasformata in condomini detta il “sacco di Palermo“.

Palermo e la cultura si ferma al Politeama. Le uniche due ragioni per andare più in là, eccetto il bel mare di Mondello, si chiamano Albero di Falcone e via d’Amelio. Il primo sta di fronte alla casa dove viveva il giudice , gli “strange fruit” che penzolano sono biglietti e oggetti ricordo di persone giunte qui in pellegrinaggio. Via D’Amelio è tristemente nota per la strage che tolse la vita all’altro giudice, Paolo Borsellino e ai cinque della sua scorta. Anche qui un’albero, ricordi, pellegrinaggi…per non dimenticare i martiri della legalità.

Palermo e la cultura è anche questo, un movimento civile che ha rifiutato l’omertà e la sottomissione superando la logica mafiosa. 

C’è molto altro però. Una storia di secoli ha generato l’odierno spirito della città. 

Lo scenario potrebbe esser racchiuso fra le due porte, i Quattro Canti e il teatro Massimo, ma solo idealmente. 

Panorama dalla chiesa di Ballarò. © Federico Tovoli Photojournalist

Trovo il centro storico  molto facile da percorrere. Un po’ come a Pisa, vige la logica del “fai prima a piedi”. Grande vantaggio per lo stato mentale e l’inquinamento del pianeta.  

Quando si parla di Sicilia e per estensione di meridione d’Italia  si dice “crocevia di culture”. Palermo e la cultura, il suo centro storico ne sono un sunto…e per strada. 

Via Maqueda, con i miei trascorsi latinoamericani non riesco a pronunciarla come fanno tutti qui, come si scrive; è dedicata a Bernardino de Cardenas y Portugal duca di Maqueda e viceré di Sicilia dal 1598 al 1601. Memorie del grande impero su cui non tramontava mai il sole. 

La strada incrocia la via dedicata al primo re d’Italia, divenuto tale undici mesi dopo che Garibaldi sbarcò a Marsala. Due pezzi di storia italiana che si incontrano ai Quattro Canti: apparati decorativi seicenteschi, con simbologia multipla delimitanti quattro quartieri del centro storico. Architettura del vicereame abbellita da lampioni in liberty, l’eleganza della grande città nei secoli.

Il canto Sud rappresenta il mandamento di Palazzo Reale, il canto est delimita il quartiere Kalsa. Su questo lato un pannello turistico illustra un itinerario arabo-normanno. Il crocevia di culture…
Palermo e la cultura
Concerto per la conclusione del torneo di calcio “Mediterraneo Antirazzista” a Ballarò. Christian “Picciotto” Paterniti &a The Gold Diggers “reppando” in siciliano. © Federico Tovoli Photojournalist

Cammino verso Palazzo Reale, noto come Palazzo dei Normanni, la residenza reale più antica d’Europa, sede del regno di Sicilia, dei normanni che avevano scacciato gli Arabi. C’era la corte di  Federico Secondo, l’illuminato imperatore  svevo, nato nelle Marche, morto in Puglia, sepolto li vicino lungo via Vittorio Emanuele, nella Cattedrale cittadina. 

Imponente appare nella luce del mattino, la cattedrale di Palermo . Gioiello nel patrimonio UNESCO. Fra la chiesa  e reggia i giardini d’Orleans, un parco pubblico che profuma di Mediterraneo. 

Molti popoli son passati di qui, i primi a lasciare tracce architettoniche evidenti sono stati gli arabi e i normanni. 

Quella Cattedrale,  fu luogo di culto cristiano sul quale fu costruita una moschea che tornò chiesa grazie ai normanni. Il Palazzo reale ha una storia simile che dall’esterno non si vede. La Cappella Palatina al suo interno è l’impronta normanna. L’evidenza araba è più marcata invece nella prospiciente chiesa di san Cataldo che ha cupole come una moschea e campanile normanno. Nei pressi c’è la fontana Pretoria simbolo cittadino , rinascimentale. 

Ogni epoca ha lasciato traccia, fintanto l’antico Ponte dell’Ammiraglio che i Mille attraversarono per penetrare in città. Reca ancora i segni dei proiettili. 

Anche la toponomastica aiuta. La Kalsa, europeizzata come “Mandamento i tribunali”, deriva dall’arabo Khalisa, l’eletta. Da qualche parte a Palermo qualcosa  si chiama Ballarò. E’ stato il nome di un talk show della tele nazionale,  uno degli autori era palermitano. 

Ballarò è uno dei mercati storici cittadini, il nome non ha legami col ballare, di etimologia incerta, due ipotesi riportano all’arabo. 

Altro mercato storico, la Vucciria si chiama così da “boucherie”, macelleria in francese, (come la Boqueria di Barcellona), traccia angioina, evidente anche  nel quadro di Guttuso

Dai monumenti e dalle belle piazze il passaggio alla Palermo popolare è istantaneo. Tutto è vicino, specialmente Ballarò, un sua in piena regola. 

Addentrandosi alla Kalsa, alla Vucciria o dintorno a Ballarò noto  qualcosa di strano. Tutto sembra un po’ abbandonato, troppe saracinesche chiuse, spesso in forgia antica, arrugginite. Palazzi crollati con macerie e cespugli.

Fra le grida dei venditori, il flusso continuo di palermitani e turisti, alle spalle di quelle vie occupate per metà dalle bancarelle di Ballarò, i ruderi son messi in sicurezza alla meglio.

Come in molte altre città del meridione d’Italia, comunque, il centro storico palermitano continua ad essere abitato. Non sta accadendo, mi si dice, come a Lisbona dove è tutto diventato  AirbNb o come in tanti borghi  minori qui in Toscana, dove non c’è più nessuno perché non c’è più nulla, o c’è stata quella gentrificazione che li ha resi la zona high-class.  

Qui Il centro continua ad esser popolato da una umanità autoctona che vive un po’ ammassata. Malgrado i palazzi bombardati dell’ultima guerra e le strade commerciali siano un’unica saracinesca abbassata a causa del mondo che cambia. 

Altra caratteristica impattante  è la quantità di persone di altre etnie in tutta l’area. Balcanici e russofoni non li si distingue più, ma africani in genere e indiani sono inconfondibili. 

Palermo e la cultura dell’accoglienza, un legame coi secoli passati.  

Se la storia serve per capire il presente è sufficiente rileggersela. “Santa Wikipedia” riporta che il periodo normanno fu il più “democratico “, proseguendo la convivenza fra  religioni ed etnie iniziata dagli arabi. Era  “una specie di stato federale con un primo parlamento, creato nel 1129” (cit. Wikipedia) dove l’arabo restò lingua ufficiale almeno per un secolo dal passaggio di consegne. 

Testimonianza di questa secolare multietnicità è la pietra della Ziza una locale stele di Rosetta scolpita in era normanna e conservata al museo del Palazzo della Zisa, che in arabo vuol dire la splendida…anche se oggigiorno è addossata alle costruzioni del sacco. 

In centro mi imbatto in una festa di piazza. Zona Ballarò, ci sono due band locali, una fa rap, un’altra più etnica. Si celebra  la fine del torneo di football “Mediterraneo Antirazzista”. Piazza gremita di giovani, africani, indiani, italiani. Ballano tutti insiem,, dal palco il rapper canta in siculo, la facciata barocca di una chiesa appare a  tratti fra le luci e il fumo di scena. 

In altro evento conosco Miriam, ventiquattro anni, altrove non mi ci sarei rivolto in italiano dato che è inconfondibilmente africana. Attivista di un’associazione legata all’ARCI mi si presenta con un “io sono palermitana” in perfetto italiano con accento siculo. E’ nata qui da padre tunisino e madre delle Mauritius che qui si sono conosciuti. E ‘ la realtà italiana dell’ultimo quarto di secolo, malgrado in troppi fingano che non esista. Qui a Palermo ancora più forte, per la continuità secolare nella multietnicità, che adesso si chiama cultura dell’accoglienza. 

Me ne parla anche Leoluca Orlando, titanico sindaco che annovera cinque mandati a partire dal 1993. Lui che ha transitato la città ” che sembrava Beirut” nella capitale culturale italiana, senza mezzi termini afferma che il suo compito è stato quello di buttar fuori la mafia, che oggi  è percepita come nemica della città. Riguardo all’accoglienza mi parla di una “Carta di Palermo” dichiarazione di intenti all’avanguardia  voluta dalla sua giunta e volta all’abolizione del permesso di soggiorno, per la radicale modifica della legge sulla cittadinanza e per il diritto alla mobilità della persona umana.

L’atto pratico di questo documento è visibile in giro per il centro, ma ancor di più incontrando Claudio Restivo alla sede di Moltivolti, in piena Ballarò. “Qui si da uno spazio dignitoso ad associazioni, ong, gruppi informali con progetti sociali.” Mi dice.  “Motore economico è il  ristorante e bar : se bevi una birra la sera finanzi un progetto sociale”. Tre africani lavorano in cucina, diretti da un cuoco afgano che era un’ufficiale dell’Alleanza del nord

La sera al tavoli e nelle strade fuori c’è una bella atmosfera Meltin Pot. 

Palermo e la cultura
Ora dell’aperitivo a La Kalsa © Federico Tovoli Photojournalist

Le associazioni stanno facendo molto per far uscire il mercato di Ballarò dalla contraddizione burocratica in cui si trova. Indubbiamente è affascinante, fra edifici secolari e grida dei venditori. E’ quell’atmosfera “souk”, cultura locale, DNA cittadino. I negozianti si sono abituati ai turisti. Hanno addirittura confezioni di frutta secca e spezie in sottovuoto per il trasporto aereo. Un’associazione sita a Moltivolti si occupa del tour fra le bancarelle. ” Le istituzioni” prosegue Claudio : ” sono presenti, le personalità visitano il mercato un giorno e magari due giorni dopo arrivano gli ispettori e chiudono tre attività per problemi di agibilità.” Quel che stanno facendo ” quelli di Moltivolti” è cercare di superare anche il concetto di legalità andando verso la normalità.

La legalità è la bandiera di Libera. Don Ciotti è raffigurato nei muri di Moltivolti. Claudio afferma che adesso bisogna far passare il concetto che è normale fare uno scontrino, avere le carte in regola, l’agibilità. Per le botteghe di Ballarò la normalizzazione dovrebbe tradursi nell’acquisizione dello status  di botteghe storiche. 
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